“Non c’è leadership senza umiltà” … come diceva Kenneth Blanchard.
Adriano Olivetti, un esempio per tutti.
Ho sempre ritenuto che uno degli elementi fondamentali della leadership sia avere una grande attenzione per le persone. Tutto ciò che noi facciamo dipende in larga parte dalle persone, dal cosiddetto “fattore umano”. E da qui sono sempre partito, accompagnato da un pensiero fisso : “fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te “.
In ogni ambito relazionale, privato e pubblico, ma soprattutto nel contesto lavorativo, ritengo sia determinante riuscire a coinvolgere pienamente e totalmente i propri collaboratori, le persone vicine a te. Facendoli sentire parte dell’impresa, parte del problema ma anche parte fondamentale della soluzione. E non vorrei con questo sembrare eccessivamente morbido o, con un neologismo invalso ultimamente, “buonista”, perché non è affatto così.
La mia è una forma di leadership decisa, forte, non sempre leggera da seguire.
Vorrei far comprendere una cosa in cui credo fortemente: si deve essere fermi e talvolta anche duri, facendo però sentire le persone comunque importanti. Ecco, credo che il termine giusto sia proprio “importanti”, perché solo se le persone si sentono tali si esprimono al massimo delle loro potenzialità e del loro talento commerciale.
Senza la necessaria umiltà tutto ciò non è possibile.
La determinatezza nell’essere forti non deve far perdere di vista un atteggiamento ed un approccio umile verso le persone. Pensare “questa gente ce l’ho in pugno!” è un errore gravissimo, oltre ad essere eticamente scorretto ed autolesionista.
L’umiltà è uno dei pilastri principali della leadership.
Qualche tempo fa ho condotto una riunione con la forza vendita commerciale. Una riunione programmatica con una cinquantina di persone, un meeting di lavoro dove affermai concetti forti, pesanti con toni molto duri e determinati.
Il commento, successivo all’incontro, che mi ha dato maggiore soddisfazione è stato quello di uno dei partecipanti che avvicinandosi mi ha detto : “tu hai la capacità di dire cose durissime e difficili da sopportare, ma di riuscire a trasformare tutto questo in una energia formidabile che ci fa uscire dalle riunioni straordinariamente motivati a fare meglio. Non dai l’impressione di un presuntuoso saccente, ma di un comunicatore forte e di un uomo che prima di ogni altra cosa ci rispetta!”
Credo che in questa frase ci sia l’essenza della mia modalità di gestione delle persone, ovvero la capacità di essere coerente, e quindi duro quando serve, ma sempre autentico, affidabile e credibile.
Ho volutamente citato nel titolo di questo editoriale un guru della grande formazione del management, Kenneth Blanchard, poiché egli parla anche di “ambienti di lavoro” in cui la gente disponga di tutto il necessario per perseguire degli importanti obiettivi. Questo concetto mi ha per un attimo fatto ricordare la figura di Adriano Olivetti, l’illuminato imprenditore di Ivrea che negli anni cinquanta portò la sua azienda di macchine da scrivere ai vertici mondiali, fermato da un decesso improvviso a cinquantanove anni che impedì a lui, ma anche e soprattutto a noi italiani, di poter primeggiare nell’industria dei calcolatori elettronici che stava nascendo e su cui la Olivetti aveva già progetti lungimiranti.
Olivetti guidava un’industria con operai molto qualificati ma che non dovevano fare grandi sforzi intellettuali per essere motivati nel loro lavoro, pur tuttavia sviluppò un modello di fabbrica che consentisse ai dipendenti di lavorare in modo rilassato e sereno. Quando fece costruire la magnifica sede di Pozzuoli, volle che i reparti di lavoro si affacciassero sul mare, chiamò accanto a sé architetti illuminati ed a dirigere il personale chiamò uno scrittore, Paolo Volponi, a significare la sua grande attenzione per il corpo produttivo, operaio o dirigenziale, attraverso un “umanista”, che motivasse le risorse umane tramite la loro valorizzazione sociale.
“Abbiamo voluto che la natura, la luce, accompagnassero la vita della fabbrica, per non trasformare nessuno in un essere troppo diverso da quello che vi era entrato”: questa frase di Olivetti, che potrebbe presupporre la staticità dei soggetti che entrano nel mondo del lavoro e non hanno crescita, ha invece un valore opposto. Quello di non voler trasformare le persone in automi, oppure di omologarle ad alcuni stereotipi, ma considerare tutte le loro peculiarità come valore aggiunto al progetto aziendale complessivo.
Si dirà che queste considerazioni appartengono ad un’altra epoca , che oggi le cose sono cambiate e la crisi ha reso tutto più difficile e complicato, ma io credo che alcune delle intuizioni del lavoro filosofico/manageriale di Adriano Olivetti si dovrebbero traslare ai bisogni attuali ad agli ambienti di lavoro dei giorni nostri. Si otterrebbero sicuramente risultati migliori.
A cura di Bruno Vettore